Il Libano al centro delle tensioni in Vicino Oriente
In Siria e in Iraq l’Isis sembra vicino alla sconfitta: la liberazione di Deir ez Zor, l’entrata dell’esercito siriano ad Abu Kamal e la riconquista di Al Qaim da parte degli iracheni hanno segnato un decisivo passo indietro per l’autoproclamato califfato, che sta perdendo le sue ultime importanti roccaforti. L’indubbio successo dei governi di Siria e Iraq, fiancheggiati dalle milizie popolari sciite e da Hezbollah, rinsalda l’influenza regionale dell’Iran, loro potente alleato. Con l’espugnazione delle città in mano all’Isis fra Siria e Iraq, sembra rinascere la cosiddetta mezzaluna sciita, ossia quell’insieme di Paesi in cui gli sciiti mantengono un forte potere, che ora si allarga senza soluzione di continuità dall’Iran al Libano.
Di fronte a questi sviluppi politico-militari, le tensioni fra gli attori regionali si sono infuocate. Al centro dei nuovi scontri geopolitici, che presto potrebbero trasformarsi in militari, vi è il Libano. La stabilità del piccolo Paese affacciato sul Mediterraneo si basa su un fragile compromesso fra le varie componenti religiose e politiche, in cui Hezbollah, il partito-milizia sciita sostenuto dall’Iran, ha un peso decisivo. Un fragile equilibrio che rischia di saltare in seguito agli ultimi avvenimenti. Il 4 novembre durante una visita in Arabia Saudita il primo ministro libanese, il sunnita Saad al-Hariri, si è dimesso dalla carica con un videomessaggio trasmesso dall’emittente televisiva Al Arabiya. Hariri, alleato dei sauditi, ha affermato di temere un complotto contro la sua vita e ha accusato l’Iran ed Hezbollah, alleato del Paese persiano, di destabilizzare il mondo arabo.
Il presidente libanese Michel Aoun, come riporta l’Ansa, ha congelato le dimissioni del primo ministro, affermando che non le accetterà finché non lo incontrerà di persona. Anche il suo partito lo ha invitato a rientrare in Libano, mentre nel Paese crescono la paura e il senso di umiliazione. Dopo le dimissioni Hariri infatti non ha rilasciato ulteriori dichiarazioni e non è ancora tornato in patria, nonostante il governo saudita abbia dichiarato che egli è in stato di libertà. Le autorità libanesi invece nutrono il sospetto che in realtà Hariri sia trattenuto in Arabia Saudita contro la sua volontà, come riporta l’agenzia di stampa Reuters.
Tutto ciò accade in un periodo nel quale l’erede al trono saudita, Mohammed bin Salman, stringe sempre più la sua presa sul potere e inasprisce i toni contro l’influenza dell’Iran nella regione, ottenendo l’approvazione degli Stati Uniti. Il fatto che le dimissioni del primo ministro libanese siano state presentate da Riad e gli sviluppi successivi della vicenda fanno sospettare che l’Arabia Saudita abbia fatto pressioni su Hariri affinché si dimettesse, delusa dal suo operato politico e dal fatto che egli non sia riuscito ad arginare l’influenza di Hezbollah in Libano. Inoltre i sauditi potrebbero aver fatto leva sulla situazione economica di Hariri: l’azienda di famiglia “Saudi Oger”, impresa edilizia con sede a Riad di cui Hariri era presidente, ha chiuso i battenti il 31 luglio 2017, in preda a una difficilissima situazione finanziaria e creditizia.
Preoccupano le dichiarazioni del ministro saudita degli affari del Golfo, al-Sabhan, il quale il 6 novembre ha detto che, a causa delle aggressioni contro il regno saudita da parte dei libanesi di Hezbollah, il governo libanese sarà trattato “come un governo che ha dichiarato guerra contro l’Arabia Saudita” e che “i libanesi devono scegliere tra la pace e schierarsi con Hezbollah”.
Dichiarazioni ancora più bellicose sono state rivolte dal ministro degli Esteri saudita all’Iran, accusato di fornire armi ai ribelli in Yemen, dopo che un missile balistico proveniente dallo Yemen, dove infuria la guerra civile e dove l’Arabia Saudita è intervenuta militarmente, è stato abbattuto dai sauditi vicino all’aeroporto di Riad.
In seguito alle dimissioni di Hariri, Bahrein e Arabia Saudita hanno chiesto ai propri cittadini residenti in Libano di lasciare il Paese, mentre il primo ministro israeliano Netanyahu ha immediatamente affermato che “le dimissioni di Hariri sono una sveglia per la comunità internazionale” per “fermare l’aggressione iraniana nella regione”, come scrive l’Ansa. Le tensioni al confine fra Israele da una parte ed Hezbollah e Siria dall’altra sono forti, come conferma l’abbattimento di un drone siriano da parte degli israeliani avvenuto presso le alture del Golan nei giorni scorsi. Già il 10 ottobre il ministro della Difesa israeliano Avigdor Liberman affermava che la prossima guerra vedrà Israele impegnato su due fronti, uno a sud e uno a nord, e che Libano e Siria costituiranno un unico fronte settentrionale: “Se una volta parlavamo del fronte libanese, ora non c’è più un fronte simile. C’è il fronte settentrionale. In qualunque sviluppo ci possa essere, sarà un fronte unico, Siria e Libano insieme, Hezbollah, il regime di Assad e tutti i sostenitori del regime di Assad”. Secondo Liberman inoltre l’esercito libanese non è più indipendente, ma è ormai sotto il controllo di Hezbollah.
Il quadro che emerge vede contrapposti da una parte Iran e i suoi alleati regionali e dall’altro lato della barricata Arabia Saudita e Israele, un’accoppiata strana, ma neanche troppo, essendo entrambi i Paesi alleati degli Stati Uniti.
Stati Uniti e Francia hanno espresso “sostegno alla sovranità, all’unità e alla stabilità” del Libano, ma i venti di guerra continuano a soffiare sul Paese dei cedri. E non sembra che ci attendano tempi di bonaccia.